Ieri, in occasione della presentazione del suo nuovo album Accetto Miracoli, Tiziano Ferro ha dichiarato di aver subito bullismo omofobico. Il cantante di Latina, apertamente omosessuale, ha detto in conferenza stampa: «Il fatto che un idolo dei ragazzini possa prendermi in giro su certe tematiche è un atto di bullismo». Il riferimento è a Fedez, dove nella sua canzone del 2011 È tutto il contrario cantava:
Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing
ora so che ha mangiato più wurstel che crauti.
Si era presentato in modo strano con Cristicchi
“Ciao sono Tiziano non è che me lo ficchi?”
Fedez si è affrettato a bollare l’episodio come appartenente al passato, proponendosi di instaurare nuove collaborazioni con Tiziano Ferro. Ma Tutto il contrario non è l’unico caso in cui la musica italiana si è lasciata andare a frasi di dubbio gusto. Omofobia, sessismo e razzismo permeano la musica italiana da decenni. E spesso sono testi che sono talmente entrati nella cultura popolare che abbiamo smesso di dare un peso al loro significato.
La vicenda è recentissima. Irama, quest’anno si è presentato a Sanremo con la canzone La ragazza col cuore di latta. Prima di calcare il palco dell’Ariston aveva vinto Amici, storico programma sforna cantanti e ballerini di Maria De Filippi, con la canzone “Stanotte”. Nel testo la strofa: «Voglio chiudermi in un bar. Poi spogliarti sulla metro. Fare a pugni con quel trans». Misgendering e violenza. “Quel trans” si è rivelato avere un nome e cognome: Manila Gorio, modella e conduttrice milanese.
Dopo che Vladimir Luxuria aveva acceso i riflettori sul testo di Irama, Gorio ha deciso di parlare tramite i suoi canali social rivelando di essere lei “quel trans”: «Ricordo ancora quella sera a Milano, caro Irama. Tu e il tuo gruppetto di amici mi avete deriso e aggredita di parole. La tua canzone ricordando quel vostro gesto ignobile dovrebbe essere bandita da ogni diffusione. Quel trans ha un nome, una dignità, una storia! Quel trans come ti sei divertito a cantare sono io!». Gorio chiese a Irama di correggere il testo, ma per il giovane cantante della scuderia De Filippi il caso non è mai stato aperto.
Nel gennaio 2019 a Corinaldo, nelle Marche, il panico creato da una bomboletta di spray al peperoncino costò la vita a sei persone, morte per traumi da schiacciamento dopo il crollo del ponte dell’uscita di sicurezza del locale. Le vittime, cinque ragazzini e una donna, erano là nell’attesa – che poi si sarebbe scoperta essere vana – di ascoltare il fenomeno della trap italiana Sferaebbasta.
Lungi dall’attribuire le colpe della strage al cantante, la vicenda portò alla ribalta i testi di Sferaebbasta e di alcuni altri cantanti della scena trap sono intrisi di sessismo: le donne, spesso definite “bitch”, “troie”, sono ridotte a oggetti da portare a letto.
Emis Killa non è nuovo ad accuse di omofobia per i suoi testi. In una intervista rilasciata a Il Messaggero, il rapper si è difeso dichiarando: «Non li definisco proprio degli errori. Quando li ho fatti avevo 18 anni ed ero molto inconsapevole. La nicchia del rap che frequentavo voleva che un rapper parlasse in questo modo. E, comunque, non sono omofobo, ma accetto il fatto che qualcuno se la sia presa e mi consideri un maleducato. Tra l’altro molti dei miei amici e conoscenti gay usano gli stessi termini che sono comparsi nelle mie canzoni».
Ma quali sono questi termini che usano anche i suoi amici gay? È presto detto: nel brano “Milano male” il testo recita che «I ricchioni che si fanno in strada e vorresti ammazzarli, froci»; in “Riempimi le tasche” il rapper milanese intona «Sei un brutto frocio si sgama quando mangi il gelato col cono»; in “Broken dolls” Emis Killa si lascia andare a un «Si ficcasse l’arco in culo e diventasse frocio». Non solo gay, il potere di Emil Killa sembra essere anche quello di “convertire” le lesbiche. Nel 2016, infatti, nel singolo “Wow”, non manca anche una dose di lesbofobia con la strofa: « Così wow che i ciechi mi vedono/ I sordi mi sentono e una lesbica ritorna etero».
Correva l’anno 2009 e Giuseppe Povia, salito alla ribalta per il brano hit Quando i bambini fanno oh e per aver vinto Sanremo l’anno successivo con Vorrei avere il becco toglie la maschera e si rivela il cantautore del Popolo della Famiglia. La sua Luca era gay, della quale il cantante non rilascia il testo prima del primo passaggio sul palco dell’Ariston, scatena le polemiche. La storia della canzone sembra ricalcare quella di Luca Di Tolve, sedicente ex gay adesso sposato e con prole. La tesi di Povia e di Di Tolve non è tanto che dall’omosessualità si può guarire, ma che omosessuali si diventa a causa dell’ambiente che ci circonda e delle persone che frequentiano. Deus ex machina del successo di Povia in versione sanremese Paolo Bonolis che, nella nuova edizione del programma “Ciao Darwin” l’ha chiamato come capitano della squadra “Family day” in opposizione alla squadra “Gay Pride” capitanata da Vladimir Luxuria. Sovranismo in giro di do.
Ci sono testi della musica italiana che ormai fanno talmente parte della nostra cultura popolare da essere considerati alla stregua di classici. Alcuni di questi testi, che ormai cantiamo senza neanche fare troppo caso alle parole, rivisti con la sensibilità di oggi possono apparire sessisti e violenti. Qualche esempio? Marco Masini su tutti con la sua Bella stronza, canzone che spesso vediamo cantata anche da donne ai karaoke. La storia è la più classica, lei lo lasciA e lui – nella narrazione che va per la maggiore – si fa prendere dal “raptus della gelosia”. Prima arrivano le accuse: «Bella stronza /che hai chiamato la volante quella notte /e volevi farmi mettere in manette /solo perché avevo perso la pazienza /la speranza sì, bella stronza». Poi arriva la minaccia (che l’ultima frase non basta a mitigare): «Mi verrebbe di strapparti /quei vestiti da puttana/ e tenerti a gambe aperte /finché viene domattina».
Non è immune al maschilismo (e al razzismo) nemmeno Vasco Rossi che nella canzone Colpa di Alfredo canta: «Ho perso un’altra occasione buona stasera è andata a casa con il negro, la troia!». Il resto del testo non la tocca comunque piano: «L’ho vista uscire, mano nella mano, con/ quell’africano che non parla neanche bene l’italiano, /ma si vede che si fa capire bene quando vuole…/tutte le sere ne accompagna a casa una diversa/ chissà che cosa le racconta, /per me è la macchina che see’ha che conta!/ E quella stronza non si è neanche preoccupata/ di dirmi almeno qualche cosa, che so, una scusa…». Anche i Modà nel testo di Meschina ci sono andati giù pesanti e parlando del tradimento di una donna scrivono: «Inginocchiati, concediti, accontentami, guardami, piangi, prega e chiedi scusa…e implorami di non ucciderti».
Ieri, dopo le parole di Tiziano Ferro, Fedez si è sentito in dovere di precisare tramite il suo profilo Instagram che «Sono estraneo all’omofobia, mi spiace per quella canzone, l’ho scritta dieci anni fa: a 19 anni ci si esprime con termini e toni completamente diversi». Federico Lucia, in arte Fedez, ha voluto così sottolineare di essere cambiato rispetto a quando ha scritto Tutto il contrario, bollando quel testo omofobo come un peccato di gioventù. Ma è abbastanza? Se vent’anni fa potevamo trovare accettabili testi come quelli di Vasco o di Masini nel 2019 dove finisce la licenza poetica e iniziano l’omofobia, il sessimo e il razzismo? Con la sensibilità che abbiamo oggi, è ancora accettabile tollerare, nel nome dell’arte, un inno allo stupro come può sembrare Bella stronza? La risposta la lasciamo a chi legge, invitando però gli artisti e le artiste italiane a lasciare fuori dai loro testi ogni forma di violenza. Contro chicchessia.
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