A volte ti capita di andare al pride perché devi farlo. Per carità, è sempre una bella festa, ci sono le persone che conosci e a cui vuoi bene, ma lo fai per “dovere”, per senso civico. Un po’ come quando la domenica vai a pranzo dalla nonna. Le vuoi un bene dell’anima e ti fa piacere vederla, va da sé, anche se giusto quel giorno te ne saresti stato a letto fino a tardi, magari. Ma sai che poi si crea un vuoto nell’esercizio dell’affetto e allora ti fai forza e vai. A volte, o almeno a me è successo, al pride ci vai così e ti rimane quella sensazione di piacevole abitudine. Ma non ieri. Per chi era a Firenze, per il Toscana Pride, non è successo nulla di tutto questo. Anzi.
Di ieri vorrei raccontarvi tutte le volte che mi sono venuti i brividi sulla pelle. Come quando arrivi al raduno, in piazza D’Azeglio, e vieni accolto da una piccola selva di gonfaloni e di fasce tricolore. Sindaci e sindache in rappresentanza di uno Stato che per la prima volta ti vede, ti riconosce. Di uno Stato che non hai problemi a scrivere con la S maiuscola. E riscopri un sentimento di gratitudine, perché c’è bellezza nello sforzo di chi è lì per per dare corpo a un profondo senso di civiltà non limitata alle sole parole, anche se forse il tuo linguaggio e le tue dinamiche non gli appartengono. E non puoi non apprezzare quel passo fatto nella tua direzione, perché è come essersi trovati/e, dopo anni di marce, nel centro delle città.
Vorrei raccontarvi la bellezza degli sbandieratori della contrada dell’Alfiere di Bagno a Ripoli e di quel sapore di festa di paese che riconciliano il tuo essere “diverso”, metropolitano o 2.0 che dir si voglia con la tradizione fatta di campanili e di piazze nei giorni festivi. Come se quelle bandiere lanciate al vento ricucissero una lacerazione tra “norma” ed esistenza. E c’era anche una piccola banda musicale, che al centro del corteo faceva tuonare i tamburi, ed era come il temporale ad agosto, quando l’afa cede il passo al fragore dei fulmini nel cielo, a sai che quella forza poi diviene vita. E ti assomiglia tantissimo.
Dovevate vedere poi, per quelle strade dove non puoi non scontrarti con la bellezza e con l’arte, gli arcobaleni disegnati sulle facce di ragazzi e ragazze, come la promessa di sole dopo le lacrime sui volti, dopo la pioggia di parole malvagie e gratuite e dopo tutte le incomprensioni sulle nostre vite. E ritrovarsi lì per caso, a ballare Occhi di gatto dietro il carro di Ireos, o a esprimere la rabbia e l’allegria insieme, sulle note di Fuck you di Lily Allen in direzione di chi, nel corso dei secoli, ci ha ucciso, ferito e deriso. Come se quella allegria fosse la giusta ricompensa, il risarcimento per tutta quella barbarie.
Dovevate vederle, ancora, le persone affacciate alle finestre che sventolavano il rainbow, la gente per strada a fermarsi, incuriosita, per poi unirsi al corteo perché quando l’onda arriva, quando l’amore e il sentimento di accoglienza ti travolgono, non puoi non lasciarti andare. Perché è così che accade, quando la natura della tua anima ritrova le note adeguate, il giusto significato da dare alla parola “umanità”. E ad una quelle finestre, ad un certo punto, l’omaggio della folla a una coppia di gay, avanti con l’età, coi sorrisi buoni e con le mani alzate per salutarci, per dire che la loro storia e la loro vita erano al servizio della causa. A disposizione di tutta quella poesia.
Dovevate esserci, ieri, quando la testa del corteo è entrata in piazza e dal palco è risuonata Bread and roses, e forse come me non avreste saputo trattenere le lacrime e forse come me, che sono uno che si vergogna a piangere in pubblico, avreste lasciato andare tutta l’emozione possibile in quel momento, perché davvero non c’era alternativa a tutto questo. E avreste sorriso, subito dopo, alle fotografie del presidente Enrico Rossi con le drag queen e le donne trans che facevano la fila per salutarlo e conoscerlo e in ogni stretta di mano e in ogni sorriso avreste capito quanto può essere bello un mondo che assomiglia all’arcobaleno che sventoli, una volta l’anno, per le strade della tua città.
Tutto questo vorrei raccontarvi oggi, ma sarebbe uno sforzo inadeguato perché le parole sono uno scrigno che non sempre riesce a contenere la realtà e rischiano di darne una rappresentazione parziale, un punto di vista che fa torto alla sua complessità. Però credetemi se vi dico che ieri, a Firenze, non si era lì solo per affetto, abitudine o dovere. Perché a un certo punto è successo qualcosa di grande davvero, come se i trentamila cuori delle persone che hanno partecipato per un lungo interminabile istante si fossero messi a battere all’unisono. Chi c’era, sa di cosa sto parlando. E chi sa tutto questo, capisce il mio senso di profonda riconoscenza a chi, a Firenze, ha fatto in modo che quel miracolo fosse possibile. Grazie davvero.