Persone intersessuali e trans: di cosa parliamo quando utilizziamo le parole per descriverle, definire e raccontare la loro identità? Se ne è parlato ieri al Perugia Pride Village, alla conferenza “Nessuno Escluso: Transessualità e Intersessualità”, all’interno del programma del pride del capoluogo umbro, ai Giardini del Frontone. Un incontro moderato da Roberto Mauri, che ha visto i contributi di Alice Troise e Greta Bilanzola di Intersexioni, del saggista Federico Zappino e di Giuliano Foca, attivista dell’associazione Omphalos Arcigay Arcilesbica.
Innanzi tutto, si è posto l’accento sul problema della medicalizzazione dell’intersessualità, partendo dal caso di David Reimer che in tenera età, a causa di una circoncisione invalidante, venne operato chirurgicamente e cresciuto come una bambina, a cui venne dato il nome di Brenda. Una soluzione che non tenne conto della sua identità di genere, come succede appunto a molte persone intersessuali, e che l’ha portato prima ad affrontare una nuova transizione e infine al suicidio. Il suo caso, ci ricorda Alice Troise, è esemplare: Brenda/David non ha deciso l’identità da darsi, proprio come accade a chi subisce la riassegnazione di genere sin dalla più tenera età. Atto di grave violenza perché poi il proprio sé viene fuori e nessuno dovrebbe costringere una persona ad essere ciò in cui non si riconosce.
«Se un bambino dimostra caratteri sessuali “ambigui”» chiarisce ancora Greta Bilanzola «viene subito ricondotto ad una normalizzazione, col bisturi». Una misura che è prettamente estetica e che non risolve il problema, ma lo aggrava. La riattribuzione avviene infatti prima della maturità sessuale, senza sapere quale identità verrà sviluppata in seguito dal soggetto su cui si interviene. «Sono interventi invasivi e irreversibili, portano a gravi problemi all’apparato sessuale e si condanna la persona a passare la vita in ospedale dove spesso non si viene trattati come esseri umani, ma come casi clinici». Interventi che sono, in buona sintesi, vere e proprie mutilazioni e che non tengono conto dell’integrità fisica e psichica dell’individuo. Con il silenzio e l’indifferenza della società.
Eppure tutti noi siamo coinvolti nella fenomenologia della transessualità e dell’intersessualità, ci ricorda Federico Zappino: «Non tutti vivono sulla propria pelle tali condizioni, ovviamente, ma tutti siamo soggetti a una costruzione di un qualche tipo, che proviene dalla società e che investe il nostro genere». Costruire uguaglianza, secondo il saggista, è un processo che deve tener conto questa somiglianza. E fa notare, inoltre, come tali squilibri siano il frutto del paradigma eteronormativo dominante: «Se una donna vuole ingrandire il suo seno, nessun giudice interviene. Così come se si vuole allungare il proprio pene. Se invece vuoi toglierlo, le cose si complicano. Ci siamo chiesti il perché?». La risposta è semplice: “aumentando” i caratteri sessuali di riferimento si rinforza l’eterosessualità, mentre gli interventi che mettono in crisi tale rappresentazione vengono patologizzati. Se sei maschio e vuoi essere più maschio, in altre parole, sei sano. Se vuoi cambiare, di conseguenza, sei malato.
Porta infine la sua testimonianza Giuliano Foca, che ricorda la differenza fondamentale tra la condizione transessuale e intersessuale, che si gioca tutta sull’autodeterminazione. «La legge garantisce la transizione» ricorda, anche se anche in questo caso esistono delle storture: «Se io voglio cambiare genere, deve essere il giudice a darmi il permesso». La stessa cosa non accade per chi vuole rifarsi il naso o il seno, ad esempio. Le persone intersessuali, poi, non hanno il privilegio della scelta. Qualcuno decide dall’alto e non per il benessere dell’individuo, ma una propria rappresentazione di cosa è la norma e, di conseguenza, la normalità. E ancora ricorda la sentenza per il suo caso: «Arrivato di fronte al giudice, mi sono sentito dire “però lei è venuto bene”».
L’incontro è seguito con un vivace dibattito tra posizioni e idee varie sulla tematica in questione e su quale valore dare all’identità. Su un punto, tuttavia, sembrava regnare un sentire comune: a decidere della vita di un individuo, sulla sua gioia e su chi sia davvero non dovrebbe mai essere un bisturi. L’umanità non dovrebbe mai essere definita attraverso un processo di sottrazione. E a Perugia a quanto pare questo messaggio è arrivato, in modo chiaro e inequivocabile.