Il rapporto tra Virginia Raggi e la gay community non è dei migliori. Mai è scoccata la scintilla – contrariamente a quanto accaduto con la sua collega torinese, Chiara Appendino – e un peso non indifferente per questa mancanza di empatia si può attribuire alla scomparsa dei temi Lgbt dal suo programma. Il rifiuto di andare al Gay Village, sempre in campagna elettorale, a confrontarsi con gli altri concorrenti per il Campidoglio non ha certo giovato alla sua immagine di paladina dei diritti di gay, lesbiche, trans, ecc (immagine al momento del tutto assente, per altro). E, com’è tragicamente naturale in questi casi, non finisce qui.
I maggiori detrattori della sindaca e del suo partito, non mancano di sottolineare – e giustamente – la sordina con cui si sta gestendo la questione sulle unioni civili. Vero è che a Roma non si registrano le follie (ai limiti della legge) che caratterizzano altre amministrazioni, come quella di Trieste (giunta di centro-destra) che vuole confinare le coppie che si uniranno civilmente in una stanza diversa da quella usata per celebrare i matrimoni o quella di Piacenza (giunta Pd) che ha stabilito che ci si dovrà accontentare dell’ufficio anagrafe. Vero è anche che le prime unioni civili sono programmate, sebbene in silenzio e con notevole ritardo rispetto a molte altre città. Eppure resta una sensazione di incompiuto, di cose fatte a metà. In politica, per altro, i silenzi non sono mai neutri (e neutrali) e questo mancato coinvolgimento dell’amministrazione Raggi, oltre a fare il paio con l’assenza di una politica mirata per la nostra comunità, sembra indicativa di altri fatti politici. E non va bene per niente.
A complicare il quadro, ci si mette anche la lettera che quasi un mese fa le associazioni romane hanno inviato all’esponente pentastellata: Famiglie Arcobaleno, il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, Anddos, Certi Diritti e tante altre realtà chiedevano di velocizzare l’iter sulle unioni civili e di fare in modo che Roma, poiché capitale d’Italia, divenisse capofila di un vasto movimento che spingesse per il matrimonio egualitario. La risposta deve ancora venire. In compenso – al di là degli strepiti di area filogovernativa, di cui avremmo fatto volentieri a meno – domina il solito silenzio e in questi casi, si sa, chi tace non è detto che acconsenta. Anzi.
Adesso, qui nessuno vuole insegnare a nessun altro come si fa il mestiere di sindaco, che immaginiamo essere oneroso, totalizzante e che necessiti di una buona dose di spirito di sacrificio. Eppure un paio di domande ti viene da farle. Come ad esempio: non è che – sulla scia di quanto successo in Senato sulla questione del mancato voto al canguro – le è stato ordinato, cara Raggi, di tenere un profilo più basso possibile sulla vicenda per non dispiacere l’elettorato di destra? Ok, adesso verrà a dirci che quel passaggio era incostituzionale, ma qui stiamo parlando d’altro: stiamo parlando della parola data (dal senatore Airola) fino al giorno prima della votazione e poi, per la magia tutta notturna di un SMS arrivato da lontano, di un clamoroso dietrofront che ha fatto fuori i diritti dei bambini e bambine delle famiglie arcobaleno. E questo rende il suo partito inaffidabile esattamente come quel Pd che ha dato libertà di coscienza ai cattodem, che anche grazie a voi hanno vinto su tutta la linea. Ed è questo che viene dal pensare di lei, sindaca, e del M5S romano.
E un’altra domanda sorge spontanea e urgente, per dirla come un famoso presentatore televisivo, anch’egli creatura della notte: non è che, dopo quanto accaduto ad Ignazio Marino dopo le trascrizioni dei matrimoni contratti all’estero, non si vuole urtare la sensibilità d’Oltretevere? Perché va bene (si fa per dire) andare in visita dal papa, tutti i sindaci eletti lo han fatto fino ad adesso. Meno bene invece che, in campagna elettorale, si sia andati a conferire coi vescovi per raccattar voti, perché oltre a venirti il dubbio che siano pezzi di elettorato ottenuti sulla nostra pelle, è pratica che rende il MoVimento spaventosamente simile al Pd che tanto criticate. E siamo a due, che è tanto per chi si dice diverso.
Adesso a pensar male, diceva un noto politico degli anni ottanta, si fa peccato ma molto spesso si indovina. E siccome non siamo i tipi che si pongono problemi di redenzione rispetto a ciò che sarà nel regno dei cieli, ci resta solo l’amara impressione di aver ragione su quella che è un’accusa serpeggiante, ma che non esiteremmo a fare a qualsiasi altro sindaco – a prescindere dal suo colore politico – che assumesse una condotta similare: non è, sindaca Raggi, che lei è un po’ omofoba? Non dichiaratamente, con quel fare un po’ sguaiato tipico di una Giorgia Meloni. E nemmeno assumendo l’elegante posa del cattolico di turno, che ne fa una questione di salvezza dell’anima. Qui ci sembra invece di trovarci di fronte a qualcuno (cioè lei) che pecca di ignavia. E com’era quella storia? “Chi vuole davvero cambiare, deve avere coraggio”. Lei ce l’ha? Non sembra.
Non vogliamo quindi insegnarle come si amministra una città, ma non possiamo non farle notare che nei paesi avanzati e civili chi governa una capitale – e spesso anche nazioni intere – si mostra solidale anche con le minoranze Lgbt di cui è, inevitabilmente, rappresentante istituzionale. E si ricorda quando, con lo sguardo da spigola al bancone del pesce, il furor retorico di Siri e la magistrale interpretazione da Gli occhi del cuore sentenziava «Qui o si cambia tutto o tutto rimane uguale»? Bene, noi il cambiamento non lo vediamo. Anzi, ci sembra di vedere un film già visto con alcune precedenti amministrazioni. E noi di sindaci come Alemanno e Rutelli ne abbiamo già avuti due. E per dirlo con tutta franchezza, «non ci sono più scuse» per una replica.
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